Palestina – Costruire il Bantustan
Testo di Piero Grippa, mappe di Luigi Giroldo
Muro di separazione, muro di protezione, muro della vergogna, muro dell’apartheid. Molte espressioni vengono usate per descrivere la separazione della Cisgiordania dalle colonie e dal territorio israeliani. E dietro ogni definizione potremmo trovare un’interpretazione, un senso dato all’esistenza di quello che è in definitiva uno strumento di oppressione.
Oltre 700 chilometri per separare, segnare una distinzione netta tra un noi e un loro, ma anche per separare città, villaggi e comunità più o meno grandi le une dalle altre, e ognuna dalle proprie risorse idriche e agricole. Checkpoint, torrette, filo spinato e otto metri di cemento per proteggere quel noi dagli attacchi di quel loro, un confine militarizzato la cui necessità di protezione nasce con la sua stessa costruzione, in quello che potrebbe sembrare un paradosso politico, ma che rappresenta uno dei concetti chiave nella sostanza delle relazioni internazionali dalla guerra fredda in giù. Una piattaforma di resistenza, per chi subisce le umanamente umilianti conseguenze dell’esistenza del muro, e vuole gridare quella vergogna al mondo facendone arte. Uno degli strumenti per un’esperienza politica, sociale ed economica ben precisa, che in altri contesti e periodi si è chiamata apartheid, che decide al momento i confini entro i quali si svilupperanno le opportunità di tutta la vita.
Una sostanza ben più eloquente della forma in cui viene presentata si può individuare anche nella differenza tra il tracciato della Linea Verde – sul quale la barriera sarebbe dovuta sorgere – e l’effettivo tracciato del muro, che, prima di tutto, è ben più lungo di quella linea tracciata sulla carta. La sostanza del muro è il sistema di colonizzazione e isolamento di cui fa parte, insieme alle migliaia di chilometri di strade che collegano esclusivamente città e insediamenti israeliani, scavalcando (e in alcuni casi accerchiando) quelli palestinesi. La sostanza del muro è anche il modo in cui viene tagliato l’accesso alle risorse: è facile creare zone cuscinetto tra un muro di cemento e un confine disegnato sulla carta, così come farci rientrare terreni agricoli da utilizzare come ulteriore forma di controllo. Sono infatti numerosi i checkpoint e le porte destinati all’accesso alle zone agricole, che gli agricoltori palestinesi sono costretti ad attraversare (nei predeterminati periodi di apertura, naturalmente), vedendosi quindi dettare dall’esterno modalità e tempistiche di lavoro.
Molti significati possono quindi essere attribuiti all’esistenza e all’utilizzo del muro della Cisgiordania, non semplicemente (come se questo non fosse già abbastanza per innescare un dissenso) un confine artificiale, ma uno strumento ben integrato in un sistema coloniale e di oppressione attivo e in continua evoluzione, in interdipendenza con la rete infrastrutturale e la gestione degli insediamenti. L’esistenza dell’elemento muro deve quindi essere parte dell’interpretazione globale della questione palestinese, e, in conseguenza, delle possibili soluzioni. Un sistema in cui la separazione di un territorio abitato da un popolo si interseca con l’occupazione di quello stesso territorio (non impedendo per altro, ma militarizzando, la comunicazione con l’esterno) rende certamente più complicato pensare a una soluzione basata sul rafforzamento in forma statale del territorio, che sia in termini di autonomie o di totale indipendenza. Oltre 700 chilometri di cemento per 8 metri di altezza con centinaia di checkpoint rendono evidente che un sistema socio-politico in cui all’idea di apartheid si somma un controllo militarizzato è semplicemente un sistema coloniale, e, storicamente, prima della costruzione statale viene la decolonizzazione.
Una decolonizzazione che deve passare attraverso l’abbattimento di quel muro, per un libero accesso alle risorse e allo sfruttamento dei terreni agricoli; e anche l’appropriazione a livello simbolico che possiamo leggere nell’utilizzo del muro come base per la realizzazione di grandi opere (da parte non solo di chi ne è direttamente oppresso, ma anche di grandi nomi dell’arte internazionale) potrebbe essere uno dei passi verso la sua distruzione.